Giornata internazionale della disabilità

Sémi

“Binari diversi – binari che si incontrano” presenta

Metà-fisica

L’odio dei miscredenti, oppure la pena dei più cari amici: la scelta sembrerebbe essere unilaterale quando si tratta di vivere l’infermità mentale, dall’interno. E a volte nemmeno una scelta è possibile a priori: la vita frenetica costringe a fare i conti con ambedue le prospettive presenti nella società che si mescola e rimescola al cospetto dei più fragili e va in ogni direzione simultaneamente, rendendo impossibile soffermarsi a riflettere e trovare una soluzione. Una via. È possibile trovare un sentiero sereno, in equilibrio tra i due estremi? Un modo di convivere con il problema principale dell’invalido: il disgustoso senso del rifiuto da parte della società odierna? Puoi guarire dall’indifferenza.

Mi chiamo Elena Ferrari e da tre anni sensibilizzo l’opinione pubblica attraversando le culture con i media a mia disposizione facendo informazione sempre come posso.

Pensiero del giorno. Ubris. Se non ho una gamba e cammino, cado. Ripetutamente, se non imparo la lezione: non posso camminare. Anche se mi piacesse di fare quello che fanno tutti e io non potessi. Potrò fare cose giudicate stupide, come contorcermi. Su me stessa. Potrò imparare a sedermi sulla strada con una gamba sola. Non a volare, nemmeno a meditare solo perché sono seduta, automaticamente, nella posizione del loto così “speciale.” Devo imparare ad accettare oppure supererò la mia tracotanza, il limite consentito della ubris greca. Ubriaco viene dal greco. Significa eccesso la radice di questa parola. Non posso oltrepassare il limite consentito, o incorrerò in sanzioni. Ho fatto sempre quest’errore: vivere al di sopra delle righe, facendo finta di non essere invalida. Devo accettare di essere vista e considerata quale quella che sono. Se non posso fare qualcosa o qualcosa non fosse nei limiti delle mie possibilità, non dovrei più farlo, se me ne fossi accorta. Tema lavoro: impossibile per me fare qualunque lavoro? No. Ho però delle limitazioni. Queste devono rappresentare il mio limite interno. Devo far coincidere la realtà circostante vigente con la mia o non passerò mai per quella cruna d’ago di cui ha parlato anche Gesù. Posso solo accettare il mio destino. Quale? Fare ciò che devo. Entro i limiti delle legge imposte. Intanto terrene. Per trovare la mia dimensione. Divina. Entro le leggi. La vita insegna a stare dentro le regole, i limiti. Qualcosa oggi ho capito. La vita può abitare, fiorente, solo entro i limiti imposti dalla natura. Contenuto e forma. (Meditazione mia by Elena)

Bugia collettiva

Era una mattina umida di novembre a Torino, quando Mario, un uomo di mezza età di Roma, arrivò al corso propedeutico per diventare agente procacciatore d’affari presso l’azienda IAL. L’atmosfera era tesa: tutti erano lì per fare una mossa importante nella loro carriera. Mario, con il suo sorriso da romano e l’atteggiamento da conquistatore, si sentiva sicuro. Non si trattava solo di imparare, ma anche di fare nuove conoscenze e, perché no, aggiungere qualche battuta alla sua collezione.

Tra i partecipanti c’era una signora che non passava certo inosservata, ma non per la sua bellezza. La signora, di nome Rita, veniva da Bologna. Aveva il volto un po’ segnato dal tempo, il corpo non particolarmente snodato, anzi, nodoso, voce ovattata, un ghiacciolo all’apparenza ma modi appariscenti e distinti, tanto che ogni sbalzo emotivo era visibile. C’era qualcosa in lei che attirava l’attenzione, forse proprio la sua presenza discreta. In fondo, sebbene in apparenza modesta, la sua aura era di chi ha vissuto più di quanto lasciasse trapelare.

Mario la notò subito. Non era il tipo di donna che avrebbe attirato il suo interesse a prima vista, ma la sua curiosità lo spinse a fare il primo passo. Si avvicinò con il solito atteggiamento da “uomo di mondo”, il sorriso smagliante e la battuta pronta. “Ciao, bella signora, come va?” le disse, mentre lanciava un occhio complice.

Rita si irrigidì per un attimo, un po’ in imbarazzo, ma poi rispose con un sorriso forzato. “Bene, grazie,” disse, sforzandosi di sembrare più a suo agio di quanto non fosse. In fondo, la sua timidezza non faceva parte di quel gioco sociale a cui Mario sembrava così abituato. Ma proprio per questo, Mario non riusciva a non essere intrigato. Un colpo di scena, pensò, “una tipa da scoprire.”

Nel corso della giornata, la conversazione tra i due si fece più familiare. Rita, pur essendo inibita, cominciò a mettersi in gioco, rispondendo a tono a Mario, che si divertiva a stuzzicarla con provocazioni innocenti. E poi, all’improvviso, una battuta di Mario fece scattare qualcosa in lei. La risata di Rita non fu più forzata, ma libera, e gli occhi cominciarono a brillare di un’energia che Mario non aveva notato prima. Era un’energia di chi, sotto la superficie, aveva vissuto esperienze che nessuno immaginava.

Alla fine della giornata, dopo che il gruppo si era riunito per una discussione più informale, Rita colpì Mario con una dichiarazione che lo lasciò senza parole. “Sai, Mario,” disse, mentre gli dava un’occhiata di sfida, “questa è la vita vera. La vera vita ti insegna a non farti troppe domande. Lascia fare… Quando hai vissuto come me, non ti fai più problemi.”

Mario, con il suo sorriso sempre pronto, rimase un attimo confuso. “Cosa intendi dire?” chiese, cercando di capire.

Rita rispose in modo deciso: “Non è che la gente lo sa, ma io sono una battona. O meglio, una di quelle che ti insegnano come funziona il mondo davvero, senza filtri. Sono una disabile, ma questo non lo sai, eh? Non ti avevo detto niente.” Le parole uscirono da lei come un’onda che travolse Mario, che cercò di mantenere il suo charme, ma il suo atteggiamento cambiò, diventando più serio.

La rivelazione cadde nel gruppo con una certa sorpresa, ma quello che nessuno sapeva era che Rita non era realmente inibita, anzi. La sua intelligenza, la sua ironia, e la sua esperienza di vita erano un racconto che pochi avevano mai ascoltato. Nonostante l’incredibile semplicità di come si presentava, lei era una donna che aveva combattuto la sua battaglia, senza farne un dramma, senza che nessuno lo notasse.

Quando il corso giunse alla sua conclusione, Mario si avvicinò a Rita, ma questa volta non con la solita battuta. C’era un’altra consapevolezza nei suoi occhi. “Beh, Rita,” le disse, “non ti avevo presa sul serio, ma mi hai insegnato una cosa.”

Rita, con il sorriso che ora mostrava una forza nuova, gli rispose con un’alzata di sopracciglia. “Che bello!” disse, “Comunque, se ti senti così, la prossima volta che mi chiami bella, ti faccio un favore: ti chiamo diversamente bello!” E con un ultimo sguardo di sfida, si allontanò, lasciando Mario con un sorriso che forse non aveva mai visto prima.

Il messaggio, sottile e pungente, si era concretizzato. In un mondo dove le diversità sono spesso nascoste dietro apparenze e etichette, Rita aveva portato alla luce la vera bellezza: quella che non si vede a prima vista, quella che si trova solo quando si ha il coraggio di guardare oltre le superfici. E Mario, ora consapevole, si fermò a riflettere. “Viva le diversità”, pensò, mentre la lezione di Rita si radicava in lui come qualcosa che non avrebbe mai dimenticato.
A Bologna l’autobus avanzava lento, come un serpente stanco che strisciava nella città grigia. Rita era appena stata licenziata dalla IAL. Tempo meno di due settimane, dopo il viaggio a Torino e sedeva accanto al finestrino, sulla sedia riservata agli invalidi. Il mondo scivolava via in un miscuglio indistinto di rumore e movimento. Lontano, il sole era solo una promessa non mantenuta.

Era una di quelle giornate in cui tutto sembrava più pesante, persino il respiro. Rita fissava il tesserino tra le mani, quel piccolo rettangolo di plastica che per la legge definiva la sua esistenza: invalida psichica. Un’etichetta invisibile quanto la sua condizione, che cercava di tener nascosto come un uccellino tra le dita.

A un tratto, un vecchio si avvicinò. Barcollava, appoggiandosi pesantemente al bastone, e la guardava con uno sguardo torvo.
“Signora, mi ceda il posto. Non vede?” disse, la voce un misto di rabbia e stanchezza.

Rita sollevò gli occhi, esitante. Lentamente indicò il tesserino, lasciando che parlasse per lei. Non disse una parola, ma il messaggio era chiaro: Anche io sono invalida.

Il vecchio la fissò per un istante, poi il suo volto si trasformò. Un’esplosione di rabbia si dipinse nelle rughe della sua pelle.
“Quella non è invalida!” gridò, la voce rimbombando nell’autobus.

Il giudizio era stato emesso. Gli sguardi si voltarono verso di lei, pesanti come macigni. Una donna con un cappotto di lana troppo vistoso sussurrò qualcosa al suo vicino. Due altre, adornate di gioielli scintillanti, si avvicinarono, occhi stretti in fessure cariche di sospetto.

“Non sembra invalida,” mormorò una.
“Certo che no. Non ha neanche un bastone,” aggiunse l’altra.

Rita sentì il calore salire al volto. Quelle parole, quei sussurri, erano come lame sottili che le penetravano la pelle. Non era la prima volta, e sapeva che non sarebbe stata l’ultima. L’invalidità psichica, dopotutto, era una bugia agli occhi del mondo. Una finzione che nessuno voleva credere.

Con un respiro tremante, Rita si alzò e si spostò su un’altra sedia, lontano dagli occhi accusatori. Il vecchio si sedette al suo posto, borbottando qualcosa che lei non riuscì a comprendere.

L’autobus riprese la sua lenta marcia. Rita guardava fuori dal finestrino, cercando di scappare con lo sguardo da quel piccolo tribunale ambulante. Ma le parole continuavano a rimbombarle in testa. Bugia. Era quello che pensavano di lei. Non importa quante diagnosi, quante certificazioni avesse, per loro lei era solo una bugia ambulante.

E forse, in un certo senso, lo era davvero. La sua invalidità era reale, ma lo erano anche le sue paure, il suo desiderio di sembrare normale, di nascondere quel lato oscuro che la definiva. Ogni giorno indossava una maschera, cercando di non cedere a quei giudizi, di non mostrare le crepe che si accumulavano nel suo cuore.

Ma quella maschera era anche una prigione. E Rita non sapeva più se il mondo la vedeva per ciò che era o per ciò che si sforzava di non sembrare.

Mentre l’autobus si fermava, e i passeggeri scendevano uno a uno, Rita si rese conto di una cosa. La sua invalidità non era solo sua. Era condivisa, frammentata nei pregiudizi e nelle aspettative degli altri. Era una bugia collettiva. Un segreto che tutti fingevano di conoscere e nessuno voleva davvero accettare.

E quel pensiero la fece sorridere, anche se solo per un istante. Forse, dopotutto, c’era una forza in quella bugia. Una forza che le avrebbe permesso di resistere ancora un giorno.

Faccio la scrittrice e voglio trovare spunti utili e storie da narrare sulla disabilità. Puoi essere protagonista dei racconti che raccolgo con le mie case editrici, semmai volessi raccontare a me quello che potresti sulla condizione che vivi. M’interessa. Puoi partecipare liberamente in modo anonimo al mio prossimo seminario. Puoi chiedere direttamente informazioni a me in persona inviando un’email a stufflermartina@pec.it

Grazie

Buona giornata della disabilità!

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